C a p i t o l o  I

 

LA TERRA NATALE DI IVAN MERZ

 

 

SECONDA    PARTE

 

 

        9. Verso l'unione degli Slavi del Sud.[1]

 

        Nel decennio antecedente la Prima guerra mondiale, la questione dell'unificazione delle terre croate della Monarchia absburgica cominciò ad avere un'altra prospettiva. Mentre infatti molti continuavano a ritenere che la soluzione di questo problema fosse realmente possibile soltanto nell'ambito della Monarchia, altri invece vedevano la soluzione fuori e indipendente­mente dai confini dell'impero, ossia nella creazione di uno Stato "jugoslavo" comprendente anche la Serbia e il Montenegro. Questa seconda ipotesi appariva sempre più attraente, specie dopo le vittorie serbe nelle Guerre balcaniche.[2] A non pochi intellettuali della Croazia la Serbia sembrava essere chiamata ad avere il ruolo del Piemonte jugoslavo, cioè a mettersi alla testa del movimento di liberazione e dell'unificazione degli Slavi del Sud. Si stava affermando perfino l'idea dell'unità nazionale dei Croati e Serbi ed anche degli Sloveni:[3] per taluni Croato, Serbo e Sloveno erano solo i nomi di tre stirpi o tribù ("tri plemena") di un unico popolo o nazione, mentre per i meno illusi la formazione di una "nazione jugoslava" era solo in votis o tutt'al più in fieri. Dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale si aprivano, almeno in teoria, le prospettive per l'attuazione dell'ideale di unifica­zione delle terre degli Slavi del Sud. 

 

 

 

        10. Il "Comitato jugoslavo" tra la politica serba e le pretese italiane.    

 

        Un certo numero di intellettuali croati, sloveni e serbi che all'inizio della guerra avevano abbandonato l'Impero austro-ungarico o già si trovavano all'estero, formarono il c.d. "Jugoslavenski odbor" (Comitato jugoslavo), allo scopo di promuovere presso i governi occidentali il progetto di unificazione degli Slavi del Sud della Monarchia (Sloveni, Croati e Serbi) e della loro unione con la Serbia e il Montenegro. Ma sul modo di questa unificazione e sulla struttura del futuro Stato jugoslavo ci furono fin dall'inizio profonde divergenze tra i politici croati (in particolare Ante Trumbić e Fran Supilo) e il governo serbo presieduto da Nikola Pašić. In sostanza, per Pašić il nuovo Stato comune doveva essere la Serbia allargata (Grande Serbia), ed egli voleva anzitutto liberare tutti i Serbi dell'Austria-Ungheria; i Croati ed eventualmente gli Sloveni potevano poi aggregarsi al nuovo Stato (quindi l'unificazione in più tappe), sempre, ovviamente, sotto l'egemonia serba. Secondo Supilo, invece, l'unione dei Croati e Sloveni con la Serbia doveva essere decisa con un referendum e l'ordinamento interno del futuro Stato doveva avere il carattere di una federazione. Egli sostenne questo programma anche presso il Ministero degli esteri di Pietroburgo, dove però non trovò sostegno. Lì anzi venne a sapere delle trattative che erano in corso tra le potenze dell'Intesa (Ingilterra, Francia e Russia) e l'Italia, e delle condizioni che questa poneva per entrare in guerra, tra cui l'annessione all'Italia di Gorizia, Trieste, Istria, Quarnero e "la maggior parte della Dalmazia". E difatti, con il patto di Londra del 26 aprile 1915 le potenze dell'Intesa accoglievano la maggior parte delle richieste italiane. Questo patto, evidentemente, non prevedeva una eventuale unificazione degli Slavi del Sud in uno Stato comune, anzi su richiesta dell'Italia non doveva essere ammessa la formazione di un tale Stato; e questa clausola sarà uno dei principali ostacoli al riconosci­mento del diritto degli Slavi dell'altra sponda dell'Adriatico all'unione. Questa circostanza peserà come un macigno sull'attività del Comitato jugoslavo, costituitosi formalmente il 30 aprile 1915, con sede a Londra: infatti, per avere l'appoggio del governo serbo contro le mire espansionistiche dell'Italia, il presidente del Comitato Ante Trumbić doveva mostrarsi remissivo verso le pretese serbe riguardo al futuro ordinamento dello Stato, tanto più che sapeva di non poter contare sull'unità di vedute in seno al Comitato stesso, in cui c'erano anche dei Serbi della Bosnia-Erzegovina che erano sulle posizioni del governo serbo.

        Ben presto apparve chiaro altresì che il governo serbo non considerava il Comitato jugoslavo come rappresentante dei Croati, Serbi e Sloveni dell'Austria-Ungheria, con cui consigliarsi sulla questione jugoslava; così, senza informarne il Comitato, trattò con le potenze dell'Intesa sulle compensazioni per le eventuali concessioni serbe in Macedonia. Fu nel Foreign Office che Fran Supilo venne a sapere della proposta del governo britannico che alla Serbia, in cambio delle concessioni in Macedonia, fossero promesse la Bosnia-Erzegovina, Slavonia, Bačka e Baranja nonché quella parte della Dalmazia che non era stata promessa all'Italia, mentre sulla Croazia "più stretta" avrebbe deciso la futura Conferenza di pace. Questa proposta fu accolta anche dai ministri degli esteri francese e russo e comunicata il 16 agosto 1915 al governo serbo, il quale la accettò con nota del 1 settembre 1915, chiedendo anche l'annessione della Croazia, mentre per la Slovenia chiedeva che le fosse lasciato di decidere da sola della propria sorte. 

 

        Dopo la disfatta della Serbia in seguito all'offensiva austro-ungarica, tedesca e bulgara nell'ottobre-novembre del 1915, la posizione del Comitato jugoslavo rispetto al governo serbo divenne alquanto più forte, in quanto aveva ottenuto l'appoggio degli emigranti, soprattutto croati, nelle Americhe e non dipendeva più dagli aiuti finanziari del governo serbo; rimaneva tuttavia la sua debolezza interna a causa della diversità di vedute dei suoi membri. Pertanto nel febbraio 1916 esso si riunì a Parigi per discutere delle questioni controverse. In quell'occa­sione Trumbić si oppose all'idea di qualsiasi unificazione parziale degli Slavi del Sud, cioè mediante l'allargamento della Serbia, come era stato prospettato da Pašić; tale politica - diceva - poteva portare al compromes­so con l'Ungheria e l'Italia, così che alcune terre croate finissero sotto la Serbia, altre restassero sotto l'Austria e l'Ungheria e alcune venissero annesse all'Italia. In tal modo la situazione croata sarebbe stata peggiore di quella sotto l'Austria-Ungheria. Trumbić sosteneva la necessità di una politica "jugoslava, uguale per i Serbi, Croati e Sloveni" e "non (una politica) serba in senso stretto"; insisteva sull'impor­tan­za della Croazia e dell'Adriatico verso cui gravita la maggior parte delle terre "jugoslave". Queste idee trovarono posto in un memorandum consegnato al governo francese il 13 marzo 1916.[4]

        Pašić però, nelle sue dichiarazioni alla stampa brittanica fece sapere di preferire per la Serbia, dopo la guerra, meno territorio austro-ungarico piuttosto che perdere la Macedonia, e che nel futuro Stato verso i cattolici sarebbe stata fatta una politica di "tolleranza"; alla stampa russa, invece, dichiarava che la Serbia riconosceva il predominio italiano sull'Adriati­co e che ciò poteva accordarsi con gli interessi serbi. Queste dichiarazioni irritarono la maggior parte dei membri del Comitato jugoslavo, in particolare Fran Supilo, il quale poco dopo uscì dal Comitato, criticando la politica del governo serbo e l'atteggia­mento passivo del Comitato verso di essa.

 

        11. La "Dichiarazione di Corfù" sul futuro assetto dello Stato degli Slavi del Sud (20 luglio 1917).  

 

        Dopo la rivoluzione russa che mise fine al regime zarista (marzo 1917) e l'entrata in guerra degli Stati Uniti nell'aprile 1917, la situazione internazionale era notevolmente cambiata, mentre le idee che si difondevano sul diritto di ogni popolo all'autodeterminazione rendevano più forte la posizione del Comitato jugoslavo. Inoltre, nell'Austria-Ungheria era stata posta la questione delle riforme costituzionali per soddisfare le richieste dei popoli slavi; si aprivano così le prospettive dell'unifica­zione degli Slavi del Sud sotto la Monarchia absburgica. Tutto ciò spinse il governo serbo e il Comitato jugoslavo a cercare un accordo per intervenire insieme presso le potenze dell'Intesa sul problema della liberazione dei Croati, Serbi e Sloveni dell'Austria-Ungheria e della loro unione con la Serbia. Pašić allora accosentì che si tenesse a Corfù - dove si trovava il suo governo - una conferenza (aperta il 15 giugno 1917) sulla questione dell'unificazione.

        Nel testo della dichiarazione comune del 20 luglio 1917, firmata da Pašić a nome del governo serbo e da Trumbić a nome del Comitato jugoslavo, venivano messi in rilievo i principi fondamentali per l'unificazione e il futuro assetto del nuovo Stato e si esigeva che "il popolo dei Serbi, Croati e Sloveni" sulla base dell'ugua­glianza nazionale e sul principio dell'autodeterminazione dei popoli venisse liberato e unito in un'unica unità statale, esclusa qualsiasi soluzione di liberazione e unificazione parziale. Per Trumbić era importante soprattutto il fatto che con la Dichiarazione di Corfù il governo serbo aveva posto davanti agli Alleati la questione della liberazione e dell'unificazione degli Slavi del Sud, internaziona­liz­zando così questo problema, e aveva accettato che nella Dichiarazione venisse esclusa qualsiasi unificazione che comportasse la spartizione delle terre croate.

        La Dichiarazione però fu criticata dagli emigranti croati e sloveni negli Stati Uniti in quanto prevedeva la forma monarchica di governo (con la dinastia dei Karadordević) e l'ordinamento centralistico dello Stato. Fuori, evidentemente, non si sapeva quanto Trumbić, durante le discussioni a Corfù, fosse stato condizionato dall'attegiamento irremovibile di Pašić, il quale ripetutamente aveva minacciato che avrebbe lavorato per la creazione della Grande Serbia e per la liberazione, prima di tutto, dei Serbi.

 

        12. La "Dichiarazione di maggio" dei rappresentanti croati e sloveni nel Consiglio imperiale di Vienna (30 maggio 1917). 

 

        Nei primi anni della guerra l'attività politica nelle terre croate appartenenti alla metà austriaca della Monarchia era molto ristretta, i parlamenti regionali della Dalmazia ed Istria come anche della Bosnia ed Erzegovina erano stati sciolti, le libertà costituzionali soppresse. Alquanto migliore era la situazione nella Croazia-Slavonia (parte ungherese della Monarchia), dove dal giugno 1915 poteva riunirsi il Sabor (parlamento) di Zagreb, ma l'attività politica era rigorosamente controllata e la stampa non era libera.

        Dopo l'entrata dell'Italia in guerra e la disfatta serba nel 1915, nel Sabor si comincia a discutere dei problemi connessi con quegli avvenimenti e si pone la questione della riorganizzazione dell'Austria-Ungheria e dell'unifica­zione delle terre croate. Ma non tutti i partiti politici rappresentati nel Sabor avevano lo stesso obiettivo: mentre il Partito del diritto di Starčević (19 deputati) insisteva sulla necessità che tutte le terre croate fossero riunite in uno Stato, sotto la dinastia absburgica, nel quale potevano liberamente entrare anche gli Sloveni, la Coalizione croato-serba si limitava a chiedere soltanto l'unione della Dalmazia con la Croazia e Slavonia. E quando nel marzo 1917 si discusse dell'indiriz­zo da inviare al nuovo imperatore Carlo, sulla questione dell'unificazione fu votata la proposta della Coalizione, che nel Sabor aveva la maggioranza dei seggi (48 su 88). Questa votazione lasciò una cattiva impressione e fu interpretata come una smentita della richiesta dell'unificazione nazionale e della riorganizza­zione dell'Austria-Ungheria.

        Per rimediare a questa situazione, i rappresentanti dei partiti croati (della Dalmazia ed Istria) e sloveni nel Consiglio imperiale di Vienna, riuniti nel nuovo Club jugoslavo ("Jugoslaven­ski klub"), si accordarono sul programma nazionale comune. Il presidente del Club, Anton Korošec, il 30 maggio 1917 lesse nel Consiglio imperiale la Dichiarazione (entrata nella storia come "Dichiarazione di maggio") in cui si chiedeva «in base al principio di nazionalità e al diritto statale croato l'unificazione di tutte le terre della Monarchia, dove vivono gli Sloveni, Croati e Serbi, in un unico corpo statale - libero da ogni dominio di altri popoli e fondato sulla base democratica - sotto la dinastia absburgico-lorenese».[5] Dall'accetta­zione di questa Dichiarazione dipendeva l'appoggio del Club al governo, il quale però non la accettò, per cui il Club jugoslavo passò all'opposizione.

        La Dichiarazione di maggio fu diversamente valutata dai partiti politici croati. La Coalizione croato-serba evitò di pronunciarsi sulla Dichiarazione, continuando di condurre la propria politica di opportunismo. Osservazioni alla Dichiarazione furono formulate anche dal Partito popolare contadino di Radić e dal partito di Frank. Soltanto il Partito del diritto di Starčević, che aveva collaborato ai preparativi della Dichiarazione, dichiarò nel Sabor che il programma della Dichiarazione sarebbe stato anche il programma del partito. Nel campo ecclesiastico, il vescovo di Ljubljana Bonaventura Jeglič, l'arcivesco­vo di Zagreb Antun Bauer e il vescovo di Krk Antun Mahnić nonché il gruppo dei cattolici intorno al giornale "Novine" (Zagreb) si espressero a favore della Dichiarazio­ne, mentre l'arcivescovo Josip Stadler di Sarajevo si distanziò da essa, come si vedrà più avanti. 

        Nell'estate del 1917, il prof. Fran Barac, come portavoce di un gruppo di politici di diversi partiti croati, incontrando in Svizzera Ante Trumbić gli fece presente che, oltre al Partito del diritto di Starčević, un notevole numero di altri politici erano favorevoli all'unione delle terre sud-slave della Monarchia con la Serbia e il Montenegro, ma non erano d'accordo con la Dichiarazione di Corfù sul modo dell'unione e sull'ordinamento interno dello Stato. I Croati volevano prima unirsi nello Stato croato e poi entrare nell'unione con la Serbia e il Montenegro. Trumbić però rifiutò un tale processo di unificazione, avvertendo Barac che il governo serbo non avrebbe mai acconsentito alla formazione di uno Stato croato e sloveno che trattasse poi con la Serbia la questione dell'unificazione. Cercò inoltre di convincerlo che la Dichiarazione di Corfù non escludeva che il governo centrale fosse competente soltanto per gli affari esteri e per quegli interni che sono necessari per il funzionamento dello Stato; sulle altre questioni avrebbe deciso la futura Costituente.

 

        13. Sfumata l'ultima speranza che la questione sud-slava fosse risolta nell'ambito della Monarchia absburgica.

 

        Negli ultimi mesi del 1917 vari fatti sembravano mettere in dubbio le prospettive della soluzione della questione sud-slava nello spirito del Comitato jugoslavo e della Dichiarazione di Corfù. Nell'ottobre del 1917 ci fu la disfatta dell'esercito italiano a Caporetto, poco dopo scoppiò la rivoluzione d'ottobre in Russia, il che fece sperare in una pace separata con l'Austria. Nel dicembre poi ci furono le trattative segrete in Svizzera tra il rappresentante austriaco e quello britanico (colloqui Smuts-Mensdorff), con buone prospettive per il futuro dell'Austria, a condizione che essa si staccasse dalla Germania e si riorganizzasse come una federazione dei popoli. Il 5 gennaio 1918, il capo del governo britanico Lloyd George dichiarò pubblicamente che l'obiettivo di guerra del suo governo e degli alleati non era la distruzione dell'Austria-Ungheria, purché ai suoi popoli fosse data una reale autonomia. Tre giorni dopo, il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson pubblicò in 14 punti il suo programma di pace, prevedendo per i popoli dell'Austria-Ungheria la più ampia autonomia e che il confine austro-italiano venisse stabilito secondo i criteri etnici. In questo contesto, sembrava possibile la soluzione delle questioni nazionali croato-slovene nell'ambito della Monarchia absburgica.

        Il governo austriaco però rifiutava qualsiasi soluzione del problema "jugoslavo" che incrinasse la struttura dualistica dell'Austria-Ungheria. Pertanto tra i Croati e gli Sloveni cresceva sempre più la convinzione che la soluzione della questione jugoslava andava cercata fuori della Monarchia. Nel marzo 1918, su iniziativa del Partito del diritto di Starčević, si riunirono a Zagreb i rappresentati del Club jugoslavo e dei partiti d'opposizione in Croazia (senza quelli di Frank e Radić) e in Bosnia-Erzegovina, i quali nelle risoluzioni del 3 marzo 1918 ("Dichiarazione di Zagreb") si dichiararono per la autodetermi­nazione dei popoli, chiedendo uno Stato indipendente, senza nemmeno menzionare la dinastia absburgica; chiedevano inoltre che nella futura conferenza di pace fossero ammessi i rappresentanti degli Sloveni, Croati e Serbi.

        Mentre così in patria appariva sempre meno probabile l'unificazione delle terre sud-slave nell'ambito della Monarchia absburgica e si voleva che la "questione jugoslava" fosse trattata come una questione internazionale, il Comitato jugoslavo si adoperava perché gli Alleati accettassero come uno dei propri fini bellici la liberazione dei Croati, Serbi e Sloveni della Monarchia e la loro unione con la Serbia e il Montenegro.

        Su questa strada, però, si ergevano due grossi ostacoli: l'atteggiamento negativo del governo italiano verso la creazione di uno Stato jugoslavo e la speranza delle potenze dell'Intesa e degli Stati Uniti in una pace separata con l'Austria-Ungheria. Questa speranza venne meno dopo il fallimento delle trattative per una pace separata con l'Austria, e la politica degli Alleati si orientò poi verso la liquidazione dell'Impero austro-ungarico. Contemporaneamente nell'Italia stessa - sempre con l'obiettivo dell'"Austria delenda" - si rafforzavano le correnti favorevoli all'intesa con i popoli oppressi dell'Austria-Ungheria. Il 7 marzo 1918 fu raggiunto a Londra tra il senatore Andrea Torre e Ante Trumbić un accordo, secondo cui si riconosceva agli Slavi del Sud il diritto all'unione e agli Italiani il diritto a completare la propria unità, mentre la questione dei confini sarebbe stata risolta nel rispetto del principio di nazionalità e dell'autodetermina­zione dei popoli, in modo da non ledere gli interessi né dell'uno né dell'altro popolo. Questo accordo venne poi accolto nel Congresso dei rappresentanti dei popoli oppressi dell'Austria-Ungheria tenutosi a Roma dall'8 al 10 aprile 1918, il quale chiese che le potenze dell'Intesa riconoscessero questi popoli come alleati, i loro Comitati nazionali come legittimi rappresentanti dei medesimi e le loro legioni di volontari come eserciti alleati. Ma quando nel giugno 1918 alla Conferenza alleata di Versailles si discusse dell'applicazione della risoluzione del Congresso di Roma, il ministro italiano Sonnino si oppose a che quei diritti fossero riconosciuti ai Ceco-Slovacchi e agli Jugoslavi, riconoscendoli solo ai Polacchi. Fu quindi lasciato ai singoli governi di agire per conto proprio: così il governo britanico e quello francese riconobbero quei diritti ai Ceco-Slovacchi, e il governo degli Stati Uniti, ignorando la posizione italiana, riconobbe il diritto di tutti gli Slavi ad essere liberati dal dominio austriaco e tedesco. Soltanto l'8 settembre 1918 il governo italiano decideva di informare i governi alleati che riteneva conforme ai principi dell'Intesa il movimento dei popoli sud-slavi per l'indipendenza e la costituzione di uno Stato libero. Ma questa decisione non cambiò essenzialmente la visione del governo italiano sull'unificazione "jugoslava" e la questione adriatica.

 

        14. Il rifiuto serbo di riconoscere il Comitato jugoslavo come rappresentante dei Sloveni, Croati e Serbi della Monarchia absburgica.

 

        Trumbić ebbe ancor maggiori difficoltà con il governo serbo, perché Pašić non volle sentire di riconoscere il Comitato jugoslavo come rappresentante dei Croati, Serbi e Sloveni dell'Austro-Ungheria, rivendicando per il governo serbo il diritto di rappresentarli, poiché - diceva - la Serbia stava combattendo e sopportando sacrifici per la loro liberazione. In questo senso aveva chiesto per la Serbia un formale riconoscimento degli Alleati. E quando Trumbić gli rimproverò di considerare i Croati, Serbi e Sloveni della Monarchia come oggetto di diritto e non soggetto, e che così la loro unione non sarebbe avvenuta per autodetermina­zione ma per annessione, Pašić ripeté le sue tesi, aggiungendo che con il riconoscimento del Comitato jugoslavo si avrebbero due centri, il che sarebbe sfruttato dall'Italia; inoltre negò al Comitato l'autorità, dicendo di averlo creato lui. E all'osservazione di Trumbić che la Dichiarazione di Corfù riconosceva due fattori nel processo dell'unificazio­ne, Pašić rispose che ciò era detto «per la situazione esterna, per il mondo straniero». Trumbić allora, all'inizio di ottobre 1918, chiese al governo francese e a quello britanico il riconoscimento del Comitato jugoslavo, esponendo al ministro degli esteri inglese Arthur Balfour le divergenze con il governo serbo in proposito. Nonostante il malcontento provocato dall'atteggiamento negativo di Pašić sia nei membri del Comitato sia nei governi francese, inglese e americano, egli rimase fermo sulla sua posizione, cioè che sul piano internazionale solo il governo serbo poteva rappresentare i Croati, Serbi e Sloveni della Monarchia absburgica. Per questo il Comitato jugoslavo non ebbe il richiesto riconoscimento, mentre lo sviluppo della situazione politica nell'Austria-Ungheria richiedeva che tale questione fosse rapidamente risolta.

 

        15. "Consiglio nazionale degli Sloveni, Croati e Serbi" a Zagreb. La creazione del "Regno dei Serbi, Croati e Sloveni".

 

        A Zagreb il governo era in mano alla Coalizione croato-serba, che manteneva un atteggiamen­to riservato sulla questione dell'unione, temendo che in Croazia venisse instaurato il "commissariato" voluto da alcuni ambienti militari; gli altri partiti invece non riuscivano ad accordarsi su un programma comune in vista della liberazione del popolo e della creazione di uno Stato "jugoslavo". Ciò che li teneva divisi era soprattutto l'ordinamento interno del futuro Stato, che alcuni volevano fosse una federazione, mentre gli altri propendeva­no per l'unitarismo e il centralismo.

        Trumbić dall'estero insisteva perché quanto prima fosse costituito a Zagreb il Consiglio nazionale degli Sloveni, Croati e Serbi. Ciò avvenne il 5 ottobre 1918, e dopo che anche la Coalizione croato-serba aveva aderito (avendo prima assicurato il proprio predominio in seno al Consiglio stesso), il 20 ottobre ne fu eletto presidente lo sloveno Anton Korošec, mentre il croato Ante Pavelić e il serbo Svetozar Pribičević furono eletti vicepresidenti. 

        Poiché anche i Cechi e Slovacchi avevano costituito all'estero il loro Consiglio nazionale, al quale il governo degli Stati Uniti d'America aveva riconosciuto lo status di parte belligerante, competente per gli affari militari e politici dei Cechi e Slovacchi, l'imperatore Carlo IV, per salvare la Monarchia, nel suo manifesto del 16 ottobre 1918 dichiarava che l'Austria (ma non anche l'Ungheria[6]), secondo la volontà dei suoi popoli, doveva essere riordinata su base federativa. Era troppo tardi per realizzare un tale piano, tanto più che i governanti ungheresi, specialmente Weckerle e il conte Tisza, non volevano assolutamente che le terre della Corona ungherese fossero ordinate in tal modo. Pertanto il Consiglio nazionale degli Sloveni, Croati e Serbi respinse la soluzione proposta da Carlo IV e chiese per tutto il popolo degli Sloveni, Croati e Serbi un unico Stato sovrano, su tutto il suo territorio etnografico, indipendentemen­te dai confini regionali o statali entro cui allora viveva.

        Gli avvenimenti precipitavano. Il 28 ottobre l'imperatore Carlo aveva chiesto alle potenze dell'Intesa le trattative per una pace separata. Il 29 ottobre fu convocato il Sabor croato a Zagreb, che - su proposta del deputato serbo Svetozar Pribičević - dichiarò sciolti tutti i legami giuridico-statali tra il regno di Croazia, Slavonia e Dalmazia, da una parte, e il regno d'Ungheria e l'impero d'Austria, dall'altra; proclamò la Dalmazia, Croazia e Slavonia, con la città di Rijeka (Fiume), Stato indipendente, esprimendo la volontà di entrare a far parte di un unico Stato sovrano nazionale degli Sloveni, Croati e Serbi, su tutto il territorio etnografico dove vivono i Serbi, Croati e Sloveni. L'Assemblea costituente avrebbe dovuto decidere della nuova Costituzione dello Stato.

        In genere ci si aspettava che il Sabor dichiarasse destituita la dinastia degli Absburgo e proclamasse la repubblica croata, ma Pribičević fece sapere al popolo che la forma dello Stato sarebbe stata decisa dalla futura Costituente, eletta liberamente con voto segreto, diretto di tutti i cittadini. Bisognava tuttavia almeno di fatto togliere al re il potere sovrano, e i deputati si accordarono che questo potere fosse esercitato dal Consiglio nazionale.

        Il Consiglio si mise subito al lavoro. Invitò il generale Metzger, comandante delle truppe croato-slovene sul fronte italiano, a far tornare in patria i soldati; nominò il nuovo governo per la Croazia e Slavonia, i propri rappresentanti per l'Istria e la Dalmazia, poi il governo per la Slovenia e quello per Bosnia ed Erzegovina.

        Si poneva ora la questione del riconoscimento del nuovo Stato degli Sloveni, Croati e Serbi e del Consiglio nazionale come suo legittimo rappresentante. Da Zagreb si recò a Ginevra una delegazione con a capo il presidente del Consiglio nazionale Anton Korošec, il quale si rivolse ai governi alleati con la domanda in tal senso, informandoli che Ante Trumbić era stato nominato a rappresentare il Consiglio nazionale. Trumbić nella sua nuova qualità, il 3 novembre indirizzò al Consiglio superiore di guerra di Versailles la domanda per il riconoscimento, ma era ormai troppo tardi, poichè nel frattempo era stato firmato l'armistizio con l'Austria-Ungheria. Essendo mancato il riconosci­mento dello Stato degli Sloveni, Croati e Serbi prima della fine dell'Austria-Ungheria, i territori croati e sloveni furono trattati come territori nemici. Il Consiglio superiore di guerra riconobbe all'Italia il diritto di occupare le terre che le erano state promesse nel patto di Londra del 1915; la città di Rijeka non era tra i territori promessi, ma gli Italiani occuparono anche Rijeka e il suo distretto. Intanto il governo italiano di nuovo prendeva posizione contro l'unificazione "jugoslava".

        Questo contribuì ad aggravare ulteriormente la già difficile situazione interna della Croazia, e diede ai fautori dell'immediata unione con la Serbia un argomento in più per invocare la venuta dell'esercito serbo nelle terre croate. Del resto, anche a prescindere dal pericolo italiano, la Presidenza del Consiglio nazionale, che era praticamente in mano al vice-presidente Svetozar Pribičević (il presidente Anton Korošec era all'estero), ci teneva molto a ché le truppe serbe venissero in Croazia, il che di fatto avvenne nella seconda decade di novembre. Pribičević infatti si era posto un preciso obiettivo politico - l'unione delle terre croate con la Serbia e il Montenegro, sotto la dinastia dei Ka­rađorđević - che in ogni modo intendeva realizzare; a tal fine, certamente, non potevano essergli di aiuto gli ufficiali e soldati croati.

 

        In seno al Consiglio nazionale sempre più appariva la divergenza di vedute su questo nuovo Stato unitario; in questione erano il tempo dell'unificazione, la forma dello Stato - monarchia o repubblica -, nonché la struttura interna - federazione o centralismo. Sorsero delle polemiche e si formarono diversi gruppi, Pribičević però cercò di tenere sempre più da parte il Comitato centrale del Consiglio nazionale, decidendo varie questioni con la sola Presidenza. Egli comunque era disposto a ricorrere anche alla forza per realizzare il suo piano di immediata unificazione con la Serbia; in questo era appoggiato da molti membri serbi del Consiglio nazionale, da alcuni Sloveni e Croati.

        Contro questa politica si erano adoperati Stjepan Radić e un gruppo di intellettuali croati. Nella notte del 24 novembre 1918, Radić parlando davanti ad un comitato del Consiglio nazionale, si espresse contro l'unione con la Serbia, sottolineando che i signori che stavano per farlo, non avevano la necessaria autorizzazione del Sabor croato (che aveva trasmesso al Consiglio nazionale solo il potere che esercitava il re, ma non il potere legislativo), e nemmeno quella dell'intero Consiglio nazionale, che del resto non poteva dare tale autorizzazione, dal momento che non rappresentava il popolo, perché non era stato da questi eletto. Essi sarebbero andati a Belgrado senza il popolo croato e contro la sua volontà -affermò Radić. Pribičević cercò di liquidare Radić, il quale alla fine del mese si recò a Praga, dove rimase fino al 10 dicembre.

        Nel frattempo, una delegazione del Consiglio Nazionale, composta di 28 membri, il 27 novembre si recò a Belgrado, dove il 1 dicembre fu ricevuta dal reggente Alessandro, il quale proclamò «l'unificazione del regno di Serbia con le terre dello Stato indipendente degli Sloveni, Croati e Serbi nell'unico regno dei Serbi, Croati e Sloveni». Né il Consiglio Nazionale era al completo quando, nella tarda notte del 26 novembre, fu deciso la partenza della delegazione per Belgrado, né la delegazione si attenne al mandato che precedentemente aveva avuto. Il popolo croato non ebbe alcuna possibilità di esprimere la sua volontà. I suoi politici, di varie tendenze, non erano all'altezza della situazione; solo Stjepan Radić ebbe un chiaro presentimento della tragedia che si stava consumando a danno del suo popolo.

        A Belgrado, il 29 dicembre il Parlamento serbo ratificò il fatto compiuto dell'unifica­zione dei Serbi, Croati e Sloveni, mentre l'onnipotente Svetozar Pribičević era contrario alla convocazione del Sabor croato, perché sapeva che l'atto del 1 dicembre non sarebbe rimasto senza critica. Molti Croati quindi cominciarono a ritenere rivoluzionario quell'atto.

       

        16. Nel "Regno dei Serbi, Croati e Sloveni".

       

        Nel nuovo Stato le cose andarono male fin dall'inizio. Alla notizia - arrivata a Zagreb la sera del 2 dicembre 1918 - che a Belgrado era stato creato il regno dei Serbi, Croati e Sloveni, i sostenitori di Svetozar Pribičević, che negli ultimi dieci giorni avevano dominato la "piazza" di Zagreb, cominciarono a manifestare, prima nei caffé, poi nel teatro, infine per le strade, costringendo la gioventù delle scuole medie a manifestre per il nuovo Stato. In quelle occasioni "veniva offeso tutto ciò che era caro e sacro al popolo croato" (Rudolf Horvat).[7] Alle provocazioni seguirono reazioni di un certo numero di soldati croati che si misero a manifestare per la repubblica croata. Ne seguì lo scontro con i marinai ingaggiati dal capo della polizia, con il bilancio ufficiale di 13 morti e 17 feriti. Per la Presidenza del Consiglio nazionale questo incidente fu un bel pretesto per liquidare l'esercito croato e introdurre il nuovo esercito "con l'aiuto delle legioni jugoslave...dalla Serbia".

        Il 20 dicembre 1918 il re nominò il nuovo governo sotto la presidenza di Stojan Protić e con il vicepresidente Anton Korošec. Il ministro degli Interni divenne Svetozar Pribičević. Dei 20 ministeri, i Serbi ne ebbero 13, i Croati soltanto 4, due andarono agli Sloveni e uno ai musulmani. Non facevano parte del governo i rappresentanti dei due più grandi partiti croati (Partito contadino e Partito del diritto).

        All'inizio del 1919 i giornali cominciarono a riportare le notizie sulle bastonate a cui ricorrevano gli ufficiali e sottoufficiali serbi non solo contro i soldati, ma anche contro i civili croati, spesso solo perché si esprimevano per la repubblica croata. Per impedire la diffusione di tali notizie, l'autorità militare a Osijek ricorse alla forza, mettendo davanti alla redazione dei giornali "Narodna obrana" e "Radničke novine" la guardia militare. Ormai si aveva l'impressione che la Croazia e Slavonia fossero considerate dai Serbi terre nemiche occupate, dove comandavano i militari. E di fatto, il 28 aprile 1919 il giornale "Narodne novine" riportava l'ordine del Comando militare in cui si parlava del "territorio intero che il nostro esercito ha occupato e tuttora detiene", e a questo territorio veniva estesa la legge del codice militare serbo.

        Nel frattempo, per il 1 marzo 1919 il re convocò a Belgrado la "Rappresentanza Nazionale Provvisoria", i cui membri furono scelti con criteri tutt'altro che proporzionali ed equi. Questa Rappresentanza (che non fu eletta dal popolo!) si perdeva nelle interminabili e infruttuose discussioni e dissidi; l'unica legge che riuscì ad approvare, con scarsa maggioranza (2 sett. 1920), fu quella sull'elezione dei deputati per la Costituente.

        L'8 marzo 1919 il Comitato centrale del Partito popolare contadino croato aveva adottato una risoluzione in cui protestava contro i soprusi a danno del popolo croato e negava la legittimità del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni sotto la dinastia dei Karađorđević, in quanto proclamato al di fuori del Sabor croato e senza alcun mandato del popolo croato; negava pure la legittimità della "Rappresentanza nazionale provvisoria" a Belgrado. Poiché Stjepan Radić aveva tradotto in francese questa protesta e l'aveva consegnata alla missione francese che si trovava a Zagreb, su proposta di Svetozar Pribičević fu messo in carcere; la stessa sorte toccò a tre deputati del Partito del diritto, che aveva tentato di informare l'estero sulla situazione politica in Croazia ed aveva protestato contro la composizione della Rappresentan­za nazionale provvisoria, negandole il diritto di emanare delle leggi vincolanti il popolo croato.

        Nel frattempo il Partito popolare contadino raccoglieva le firme dei cittadini alla Dichiarazione, da spedire al presidente Wilson a Parigi, in cui i sottoscritti, in base al diritto internazionalmente riconosciuto dell'autodeterminazione dei popoli, si dichiaravano per la reppubblica contadina croata, chiedendo la convocazione di una Costituente croata, prima che la Conferenza di pace di Parigi decidesse della sorte del popolo croato. Nonostante le perquisizioni dei gendarmi e le bastonate ed altri maltrattamenti cui furono esposti i firmatari della Dichiarazione, furono raccolte 157.669 firme e fatte pervenire al presidente Wilson nel maggio 1919. Tutto fu però invano, perché a Parigi non c'era chi si interessasse dei Croati, tanto più che l'opinione comune riteneva che i Croati il 1 dicembre 1918 fossero entrati volontaria­mente e liberamente nel nuovo Stato.

        Intanto le persecuzioni contro i Croati continuavano. Il ministro dell'Interno Pribičević impose a tutti i consiglieri comunali il giuramento di fedeltà al re Pietro, e poiché la legge vigente in Croazia non prevedeva tale giuramento per i consiglieri comunali, i consiglieri croati non vollero prestarlo, per cui i consigli venivano sciolti e ai comuni venivano imposti i commissari governativi. Al tempo stesso Pribičević abusò della riforma agraria decretata dal governo il 25 febbraio 1919, dando le migliori terre in Slavonia non a chi ne aveva più diritto, né ai Croati delle regione più popolose, ma agli aderenti al suo partito, e precisamen­te ai Serbi della Lika, Banovina, Bosnia, Erzegovina e Dalmazia, con l'intento di aumentare in Slavonia la popolazione serba a danno di quella croata.

        Il terrore di Svetozar Pribičević era eccessivo anche per Stojan Protić, il quale nel luglio 1919 venne a Zagreb per rendersi conto della situazione, che del resto conosceva, e per parlare con i politici croati che in quello stesso mese avevano fondato un nuovo partito, "Hrvatska zajednica" (Comunità croata). Velimir Deželić jr. nelle sue memorie scrive che Protić aveva capito «che i Croati con il loro "pacifismo" e le loro teorie sui problemi giuridico-statali non erano atti a far fronte alla "mano forte" di Svetozar Pribičević e nemmeno alla maniera serba di fare la politica... Tornato a Belgrado, il 1 agosto 1919 il primo ministro Stojan Protić rassegnò al Reggente (Alessandro) le dimissioni del primo governo del nuovo Stato».[8] Il motivo da lui adotto, era appunto l'insanabile contrasto con il ministro dell'Interno Pribičević.

        Conseguenze disastrose per l'economia croata ebbero le misure del governo di Belgrado nel campo del commercio estero nonché nella politica monetaria, soprattutto quando fu disposto il cambio delle corone (austriache) in dinari, nella proporzione di 4 : 1, benché il valore d'acquisto della corona equivalesse a quella del dinaro.

        Il grande malcontento dei Croati, che aumentò in seguito al comportamento dei militari, non lasciò indifferenti nemmeno gli Sloveni. Ciò diventò evidente quando il 13 ottobre 1920 ci fu in Carinzia il plebiscito, nel quale il 59,14 % dei votanti si espressero per l'annessione all'Austria, nonostante che il 70 % della popolazione della zona A (in cui si votò) fossero Sloveni. Il 12 novembre 1920 la Jugoslavia subì un'altra sconfitta diplomatica a Rapallo, dove i rappresentanti dei due governi, italiano e jugoslavo, firmarono il trattato, con cui l'Italia ebbe la maggior parte delle terre slovene e croate che le erano state promessee con il Patto di Londra (1915). Alla Jugoslavia rimase la maggior parte della Dalmazia, mentre veniva creato "lo stato indipendente di Rijeka (Fiume)", che poi, nel 1924, venne annesso all'Italia.[9]

        Il 28 novembre 1920 ebbero luogo le elezioni per l'Assemblea costituente, che si riunì il 12 dicembre 1920. Dei 419 deputati si presentarono soltanto 367, perché quelli del Partito repubblicano contadino croato e del Partito croato del diritto non volevano prestare il giuramento di fedeltà al re e al regno, che il governo aveva imposto. Quando poi il governo presentò il progetto di Costituzione impostata sul centralismo statale, sostenendo inoltre che per la sua approvazione erano sufficienti 210 voti, e non la maggioranza qualificata, come era stato previsto nella Dichiarazione di Corfù, i Croati e Sloveni potestaronono e, poiché il governo non cedeva, un gruppo di deputati lasciò l'Assemblea dichiarando di "negare a questa assemblea la legittimità e il diritto di creare la Costituzione valida per la Croazia e il popolo croato"; essi poi furono seguiti anche dai comunisti, dal Partito Popolare Croato e dal Partito Popolare Sloveno. Così "mutilata" l'Assemblea continuò i lavori e il 28 giugno 1921 approvò la Costituzione con 223 voti, ossia con 13 voti di maggioranza, grazie ai voti dei Turchi ed Albanesi (14 deputati) della Macedonia, ai quali era stata promessa una adeguata compensazione per le terre che avevano perduto con la riforma agraria.

        Questa Costituzione, nonostante tutte le richieste per la sua revisione, rimase in vigore fino alla dittatura di re Alessandro, proclamata il 6 gennaio 1929. Nel frattempo si erano succeduti vari governi, ma nessuno era riuscito a sanare il contrasto serbo-croato, semplicemente perché da parte serba mancava la volontà politica di ordinare la Jugoslavia come uno Stato di popoli di uguali diritti. I governi occidentali, in particolare quelli francese e inglese, anche quando non approvavano la politica di Belgrado, erano rimasti sordi alle giuste richieste dei Croati, per cui Stjepan Radić nel 1924 si recò a Mosca e iscrisse il suo partito nell'Internazionale dei contadini. Fu il suo più grande errore politico, perché offrì al governo di Belgrado il pretesto per accusare di comunismo non solo lui, ma anche i Croati in genere, giustificando così le misure poliziesche in atto come "preventive" contro i bolscevichi!

        Nelle elezioni dell'8 febbraio 1925, nonostante ogni genere di soprusi da parte dei governanti, il Partito repubblicano contadino croato di Radić ebbe una ulteriore affermazione: era ormai il partito croato più forte, mentre il suo presidente Stjepan Radić si trovava in carcere. Successe allora una svolta nella politica di Radić: visto che erano falliti tutti i suoi tentativi di ottenere per i Croati la giustizia contro Belgrado, egli abbandonò la sua idea repubblicana, l'Internazionale contadina e la lotta per una Croazia autonoma nell'ambito di una confederazione con la Slovenia e la Serbia, ed accettò il centralismo e la monarchia dei Karađorđević. Fu una parentesi di distensione che non durò a lungo. Il 20 giugno 1928 il deputato montenegrino Puniša Račić nel Parlamento di Belgrado sparava contro i deputati croati, uccidendone due e ferendo altri tre, tra cui Stjepan Radić, il quale l'8 agosto successivo morì.

        Nella presentazione del quadro politico generale possiamo fermarci a questa data, perché tre mesi prima, esattamente il 10 maggio 1928 era morto anche Ivan Merz.

       


 


    [1] Per la problematica trattata nelle seguenti pagine si veda soprattutto lo studio di Dragovan Šepić, Hrvatska politika i pitanje jugoslavenskog ujedinjenja 1914-1918 (La politica croata e la questione dell'unificazione jugoslava 1914-1918), in Društveni razvoj u Hrvatskoj (Sviluppo della società in Croazia), a cura di Mirjana Gross, Zagreb 1981, pp.373-416. Vedi anche infra, nota 44.

    [2] Sugli effetti psicologici delle Guerre balcaniche in Croazia cf. P. Grgec, Dr. Rudolf Eckert, pp. 200-206.

    [3] In quel tempo gli Sloveni si sentivano fratelli dei Croati, al punto che il presidente del Partito Popolare Sloveno dr. Ivan Šušteršič, il 2 aprile 1911 dichiarava: «Noi Sloveni siamo anche Croati, ci sentiamo Croati, e il nostro ideale politico è che l'imperatore Francesco Giuseppe I come re croato cominci a governare anche tutte le province slovene come parte integrante dello Stato croato» ("Luč" VI, p. 362). Citato da P. Grgec, op. cit., p. 148.

    [4] Mémoire supplémentaire sur la Question Jougoslave, firmato da Dr. A. Trumbić "Pour le Comité Yougoslave", i cui 18 altri membri sono nominalmente elencati alla fine del memorandum. 14 pagine (10 di testo) di grande formato.

    [5] Tutti sapevano che le parole "sotto la dinastia absburgica" erano lì solo per ragioni tattiche, cioè perché la Dichiarazione potesse passare; ciò fu confermato dallo stesso Korošec davanti a 45 politici sloveni e croati riunitisi a Zagreb il 3 marzo 1918. V. Deželić, IVb, p. 95s. (Sulle Memorie di Deželić, Kakvi smo bili?, v. infra, Cap. II, nota 3).

    [6] V. Deželić, IVb, p. 81s, riferisce come - secondo le informazioni portate a Zagreb dalla redazione dello "Slovenec" (Franc Terseglav?) - il re e imperatore Carlo aveva chiamato in udienza il dr. Anton Korošec e il dr. Matko Laginja, primi sottoscrittori della "Dichiarazione di maggio", i quali gli parlarono della soluzione del problema "jugoslavo" nel senso della predetta Dichiarazione. Il re avrebbe detto, tra l'altro, di condividere l'idea del defunto Francesco Ferdinando, solo che il "trialismo" dovrà essere adattato a causa degli Ungheresi, che non possono essere sospinti e stretti lontano all'interno della Monarchia. Mutatis mutandis, è lo stesso: Invece del "trialismo" si avrebbe il "subdualismo", cioè sotto la corona di S. Stefano sarebbero uniti i territori della Croazia-Slavonia e della Dalmazia nonché della Bosnia-Erzegovina. E quando il re disse che per la Slovenia ed Istria le cose sarebbero rimaste immutate, Korošec osservò: «Allora, Maestà, voglia chiamare altre persone con cui discutere del problema jugoslavo - se l'Istriano Laginja ed io Sloveno siamo esclusi!». E l'udienza fu conclusa.

    [7] Dr. Rudolf Horvat ha dato una dettagliata cronistoria degli eventi nel nuovo Stato fino all'anno 1925, in Znameniti i zaslužni Hrvati...925-1925 (v. sopra, nota 1), pp. LXXXIV-XCIV. Si noti ch'egli l'ha scritta nel 1925, quando il ricordo degli eventi era freschissimo.

    [8] Deželić, IVb, p. 169.

    [9] Per la storia di Rijeka di quel periodo v. Leon Vio, Borba za Rijeku 1918-1924 (La lotta per Rijeka 1918-1924), in "Dometi" (Rijeka) 7-12/ 1995, pp. 51-75. Il dr. L. Vio (1895-1967), uno dei più noti avvocati di Rijeka tra le due guerre, è stato anche testimone degli eventi che descrive.